GIACOMO DE NUCCIO
Estratto da:  https://progettidivita.unipi.it/wp-content/uploads/2023/02/Interno_Progetti_di_Vita_3_totale.pdf indice saluto del rettore Riccardo  Zucchi 7 esperienze di vita: una collana per raccontare Luca   Fanucci,   Sandra   Lischi 11 introduzione Francesca  Corradi 15 TESTIMONIANZE 17 Luca  Casapieri 19 Giacomo De Nuccio 25 Tommaso  Fanucci 41 Luca  Razzauti 53 IL   RESPIRO   DELL'ARTE 67       Sandra   Lischi
_________________________________________________________________________________________ saluto del rettore Riccardo Zucchi Ho ereditato la bella e utile iniziativa della collana “Progetti di vita” dal mio predecessore, il professor Paolo Maria Mancarella, che è sempre stato particolarmente sensibile alle tematiche legate alla disabilità (sensibilità cui mi sento accomunato) e possiede anche una grande competenza specifica, avendo ricoperto in passato le cariche di Delegato alle funzioni di coordinamento, monitoraggio e supporto di tutte le iniziative concernenti l’inclusione degli studenti portatori di handicap, dal 1999 al 2016, e di Presidente della Conferenza nazionale universitaria dei delegati disabilità, tra il 2009 e il 2015. In questo mio primo saluto introduttivo da rettore, ritengo quindi giusto e doveroso sottolineare l’impegno del professor Mancarella e ringraziare il professor Luca Fanucci, confermato nel ruolo di Delegato per l’Inclusione degli studenti e del personale con disabilità e DSA, e la professoressa Sandra Lischi, che dirigono la collana, il Comitato Scientifico che sovrintende alle attività e tutte le persone che collaborano alla riuscita del progetto. Dopo aver scandagliato alcune esperienze di studentesse e studenti di fronte alla pandemia da Covid-19, un periodo che ha segnato ognuno di noi con tracce che rimarranno nella nostra memoria individuale e collettiva, e aver affrontato il tema decisivo e complesso del passaggio dagli studi universitari al mondo del lavoro, siamo ora a presentare il terzo numero. “Espressione letteraria e artistica” ne è il titolo e, come ci ricorda la professoressa Lischi nel suo testo conclusivo, “le arti sembrano offrire una strada alla libera disposizione di sé (una libertà difficile per chiunque e ben più difficile in situazioni come quelle di cui ci stiamo occupando): e questo anche grazie alla possibilità che offrono di uscire dalle gabbie definitorie, di trovare una espressione di identità che non sia racchiusa nell’etichetta limitante della disabilità o dell’handicap”. Più che commentare quanto scritto da Giacomo, Luca, Luca e Tommaso, mi pare importante fissare alcune frasi che descrivono bene quanta importanza abbiano avuto le diverse forme ed espressioni artistiche nella loro formazione umana, civile e professionale. Mi sono appuntato i seguenti passaggi, per me molto significativi. “L’arte – scrive Tommaso – è stata un’importante via d’uscita: nei momenti più bui il pensiero della bellezza espressiva dell’arte, nelle sue manifestazioni principali, quali colori, linee, forme, messaggi dei diversi autori, è stato per me un vero e proprio sollievo. L’arte pittorica è una passione che caratterizza il mio essere: la bellezza dei quadri mi dona quella serenità che certamente farà sempre parte della mia vita, contornandone l’ambiente e le mie attività”. “Amo ogni forma di arte, in particolare la musica – gli fa eco Luca – ma non separata da letteratura e pittura; amo inoltre il cinema, che fin dalla sua nascita ha usato le altre arti, già ricche di storia, per una narrazione nuova che le vede utilizzate tutte in contemporanea. La mia percezione dell’arte – di ogni arte – è strettamente legata alle emozioni. Riesco a tirare fuori tanta energia positiva dopo aver ascoltato musica, aver letto un libro, aver visto un film, uno spettacolo o dopo aver visitato una mostra”. “La pittura – rivela l’altro Luca – è sempre stata una mia delle più grandi passioni: prima di conoscere lo strumento che mi ha permesso l’utilizzo del computer in autonomia, non la potevo praticare. La mia prima opera è stata astratta. Mentre pitturavo, provavo una soddisfazione immensa. Ho realizzato questa pittura di getto, senza pensare troppo”. “La poesia – ci ricorda infine Giacomo – è sintesi: pochi versi possono dire più di mille parole ed esprimere sentimenti nascosti ed emuzioni profonde. Possono sconfessare pure la radicata convinzione che, chiunque sia vittima di una tra le tante forme di autismo, non desideri comunicare, sia indifferente al mondo e non soffra per una condizione della quale, a parere di molti, non ha consapevolezza”. Nelle pagine seguenti troverete tanti altri spunti in grado di farci riflettere sul rapporto tra l’arte e la nostra vita e, riprendendo la citazione di Shakespeare utilizzata da Giacomo, per ricordare a tutti che “Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita”. Buona lettura. ___________________________________________ giacomo de nuccio TRA SOGNO E REALTÀ Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita. (W. Shakespeare, La tempesta, atto IV, scena I) C’è stato un tempo in cui, incessantemente, mi sono chiesto se quello che le parole dell’illustre scrittore suggeriscono valga ancora in presenza di un handicap: può un qualsiasi accidente impedirci di coltivare e realizzare un sogno? E quali sogni possono agitarsi in chi, dall’handicap, è fortemente invalidato? A mio parere, l’handicap non costituisce un impedimento al sogno e per ognuno esiste un sogno realizzabile, che può dare sa- pore alla vita. A me è servito conoscere l’esperienza positiva di coloro che non si sono arresi alla fatalità e hanno lottato strenuamente per concretizzare le proprie aspirazioni. E allora eccomi, vi racconto la mia, nella speranza che possa essere di utilità soprattutto a chi si è lasciato convincere che solo la propria condi zione, qualunque essa sia, lo rappresenti. Il mio nome è Giacomo ed è poco importante, almeno per ora, che il mio cognome sia De Nuccio: molti storpiano il “De” in “Di” persino su documenti ufficiali e pochi sanno che si parla di me sentendolo pronunciare. Per tutti sono Giacomo: non è il top, ma è comunque un bel traguardo se si pensa che fino a una decina di anni fa era i l termine “handicappato” a identificarmi. Ho poco più di trent’anni e una sindrome genetica mi ha fatto il dono, non gradito e non gratuito, di una forma di autismo; infatti, in cambio, ha dato una sforbiciata di troppo alle “chiome” dei miei neuroni e, pur non rendendomi muto, ha preso la mia voce. Non è la fiaba della “Sirenetta”, se è questo che state pensando – quella l’ha già scritta Andersen – e poi, vista la mia stazza, è del tutto improbabile scambiarmi per una sirena. In fondo, però, anche la mia piccola storia ha il sapore e la struttura di una fiaba: ci sono un protagonista, un antagonista, la fata cattiva e le fate buone, tanti aiutanti… e spero siate curiosi di sapere se prima del “The end” si legge “E vissero tutti felici e contenti”. Vanto antenati di stirpe sicula e pugliese, ma sono nato in Lombardia, accolto da genitori insegnanti – migranti (perdonate la rima) e da due fratelli già grandicelli (eccola di nuovo). Correva l’anno in cui, finalmente, il muro di Berlino veniva abbattuto: io, fatalmente ignaro del fatto che, intorno a quelli come me, qualcuno è sempre pronto ad erigere altri muri anche più resistenti perché invisibili, ho sorriso. Crescendo non è stato facile riconoscere e accettare di avere dei forti limiti: la consapevolezza non diminuisce la sofferenza ma il forte desiderio di superarli mi ha aiutato a indirizzare l’attenzione sui miei punti di forza. La mia casa, seppure spaziosa, conta più metri quadrati di librerie che di pavimento: scoprire che tutti quei segni neri su fogli bianchi non erano file ordinate di formiche in tane variopinte e potevano essere trasformati in suoni comprensibili a tutti, cioè in parole, è stato fantastico. Le parole erano dappertutto, potevo riconoscerle, confrontarle, affidare a ciascuna il giusto suono (almeno nella mia mente), usarle per comprendere il mondo intorno a me e per farmi comprendere. È così che ho imparato presto a leggere, a distinguere una parola dall’altra, a comprenderne il significato e, in seguito, anche a riprodurle tutte ordinatamente sul foglio bianco con l’aiuto di strumenti tecnologici e di vari assistenti, tra cui mia madre che tuttora mi affianca quando la comunicazione vuol essere lunga e articolata. L’interesse per il linguaggio mi ha avvicinato a tutte le forme di scrittura e in particolare alla poesia, che è diventata per me privilegiato mezzo di espressione. La poesia è sintesi: pochi versi possono dire più di mille parole ed esprimere sentimenti nascosti ed emozioni profonde. Possono sconfessare pure la radicata convinzione che, chiunque sia vittima di una tra le tante forme di autismo, non desideri comunicare, sia indifferente al mondo e non soffra per una condizione della quale, a parere di molti, non ha consapevolezza. Alla poesia mi sono aggrappato come un naufrago all’ultimo salvagente e lei non mi ha mai respinto. Nell’età in cui ci si addormenta ascoltando Grimm, Andersen e Perrault, io mi sono affidato al sonno principalmente tra le note dei versi di Salvatore Quasimodo e ho cercato di fare mia una briciola della sua arte. Non avevo certo la pretesa di eguagliare colui che resta il mio autore preferito: io cercavo soltanto di acquisire un mezzo di comunicazione comprensibile a tutti, uno strumento che sostituisse la voce che, sebbene presente, non riusciva a tradurre in suoni significativi i miei pensieri. Qualcosa credo di aver imparato, visto che un giorno del lontano 1995, per esprimere la mia meraviglia di fronte al giardino di casa sotto la bianca coltre di un’abbondante nevicata notturna, ho scritto: La neve La neve, la neve bianca, bella, lieve, cade. Copre ogni cosa. Alle pieghe della terra ricama trasparenti giochi di luce, agli alberi imbianca la chioma. Nell’aria, tersa e lenta, pare finalmente l’inverno (G. De Nuccio - Ali di  Parole, poesie 1995 - 2002, Edizioni Oèdipus Salerno - Milano, pag. 11.) Peccato non aver potuto fermare in una immagine lo stupore sul volto di mia madre al mio “Mamma!”, pronunciato in quell’occasione per la prima volta e a gran voce: credo che la foto avrebbe vinto i concorsi più prestigiosi! Io posso affermare che la poesia ha alimentato il mio desiderio di vivere e ha migliorato la qualità della mia vita: infatti ha permesso a me di comunicare in modo efficace e, a chi lo desiderava, di comprendere appieno il detto “l’apparenza inganna”. Gli anni successivi a quello straordinario 1995 sono stati molto difficili e all’insegna del verbo “dimostrare”. Con mio sommo dipiacere, le resistenze maggiori a credere ch’io non fossi un involucro vuoto di pensiero e sentimenti appartengono alla scuola. In particolare, credo che se Dante fosse stato mio contemporaneo e avesse frequentato insieme a me il Ginnasio, avrebbe aggiunto un decimo girone al proprio Inferno (meglio non specificare chi l’avrebbe popolato). Costretto a cambiare scuola per salvare i miei poveri neuroni, ho trovato accoglienza solo presso il Liceo delle Scienze Sociali cittadino; in nessun altro liceo del circondario c’è stato posto per me. Non ho potuto approfondire lo studio del greco e del latino come avrei voluto, ma ho studiato spagnolo, diritto ed economia, scienze sociali, discipline comunque interessanti: devo a quei pochi insegnanti che hanno creduto fermamente in me l’aver potuto completare gli studi. Sebbene i 24 crediti che mi hanno accompagnato all’esame di maturità testimoniassero che avevo tenuto fede all’impegno preso con me stesso e con la scuola, l’ennesima fata cattiva ha tentato di negarmi l’accesso all’esame. Il giorno della prima prova scritta mi sono presentato a scuola senza sapere se avrei potuto varcarne l’ingresso. Mai suono fu più dolce del mio bistrattato cognome pronunciato per ultimo senza rispetto per l’ordine alfabetico. Era stato aggiunto all’ultimo minuto, ma non c’era tempo per le arrabbiature: sulla fronte corrucciata del mio amabile insegnante di italiano i segni di una lunga lotta, nel suo sorriso quelli di una prima battaglia vinta e lo sprone a non arrendermi. Non ho mai dato eccessiva importanza ai voti, ma mi fa ancora male quell’umiliante 18 ad un orale senza cedimenti, giustificato da un “Non parla” privo di senso: la commissione esterna, che pure aveva molto lodato la precisione e la completezza delle mie risposte, di necessità in forma scritta, aveva dato un voto al mio handicap e lo aveva bocciato, accomunando il mio nome a quello di coloro che solo fantasiosamente potevo definire studenti e compagni. Il senso di impotenza non è durato molto: il foglio di carta arrotolato con cura, che la mia mano brandiva come una spada, vergava un’ingiustizia, ma mi restituiva un senso di leggerezza che non provavo da anni e, soprattutto, legittimava il mio ingresso all’Università, concedeva nuovo spazio al sogno (Cfr. G. De Nuccio, Il posto di Giacomo, EricksonLIVE, Trento, 2010.) L’unico dubbio riguardava la scelta dell’Ateneo: viaggiare giornalmente verso la vicina Milano o scegliere una sede universitaria più a misura d’uomo e andare a vivere altrove? Milano, Varese, Pavia, Bologna… dopo aver consultato i responsabili dell’ufficio disabilità di più atenei, la decisione era presa: il lungarno di Pisa, che Leopardi aveva trovato più bello di quello di Firenze, aveva incantato anche me e avrebbe presto contato i miei passi. Il colloquio all’USID di Pisa era stato il più convincente: l’assegnazione di un tutor, che avrebbe registrato le lezioni e vergato gli appunti per me, mi avrebbe consentito di lavorare sui contenuti trasmessi dai docenti; la presenza di mia madre, l’unica al momento in grado di farmi da mediatrice, avrebbe reso possibile la mia partecipazione attiva ai corsi. Nel corso degli anni il supporto promesso non è mai venuto meno in un rapporto estremamente cordiale e fattivo soprattutto con i tutor, studenti come me che svolgono una collaborazione partime con l’USID. Con alcuni la collaborazione è andata oltre la professionalità e si è trasformata in duratura amicizia. Credo che non sia facile per nessuno lasciare la propria casa, i propri affetti, le proprie piccole noiose abitudini, avventurarsi in un luogo sconosciuto tra sconosciuti: ma io ero troppo felice e nel mio cuore ero già ai piedi della torre pendente insieme ai miei indispensabili genitori. Al mio arrivo Pisa non poteva farmi regalo migliore di quella lieve nevicata che già imbiancava i tetti, quasi sapesse che la neve ha per me un significato speciale: la mia candida amica era la promessa di una nuova e più serena vita, mai smentita negli anni successivi. Brevi flashback non possono raccontare tutto e tutti e non me ne vogliano tanti amorevoli colleghi, insegnanti, amici che leggendo queste mie quattro righe potranno sentirsi esclusi: ognuno di loro è con me per sempre, insieme a una città che mi ha fatto deside rare di essere suo figlio. COM’È PICCOLO IL MONDO!!! Per raggiungere la sede dell’USID attraverso il centro della città. Tutto è nuovo per me, ad ogni passo mi fermo, leggo: Pisa ricorda personaggi illustri cui ha dato i natali, episodi significativi della propria storia. La mia fantasia mi rende sordo ai richiami di mio padre, non posso camminare velocemente e poco mi importa di arrivare in orario se Galileo viene verso di me e Leopardi mi saluta dal lungarno Pacinotti. Arrivo in largo Pontecorvo immusonito più del solito, saluto appena e non vedo l’ora di riprendere la via di casa. Vengo invitato alla pazienza, non possiamo perdere l’op- portunità di incontrare il Delegato del Rettore alla Disabilità, responsabile dell’Unità per il Supporto e l’Inclusione degli studenti con disabilità (USID). Dopo un tempo che a me sembra lunghissimo, la persona in questione – barbetta incolta, occhiali e sorriso aperto – arriva. Mentre conversa con i miei come se si conoscessero da sempre, scopro che è nato a Gallarate, proprio come me. La cosa mi preoccupa, un passato recente e ancora troppo doloroso mi lega alla mia città e mi rende guardingo. Scoprirò presto che non ho nulla da temere, che colui che ho di fronte è, nella mia fiaba, un nuovo e prezioso aiutante che seguirà i miei passi, anche quando assumerà la massima carica universitaria, e li apprezzerà. IL PRIMO ESAME Percorro il breve tragitto che mi separa da Palazzo Ricci. Al di sopra del portone leggo “FACOLTÀ DI LETTERE”, sulla soglia si staglia la figuretta sorridente di Viola, la mia tutor: è il primo giorno del mio primo corso. Sono felice, ma anche molto emozionato: mentre mi chiedo se mi accetteranno o se qualcuno spezzerà quella sorta di stato di grazia in cui mi trovo, il timore di non essere all’altezza della situazione mi toglie il respiro. È un attimo, non c’è posto per i ripensamenti, sono già in aula. A stento riesco a sedermi nell’ultima fila; colleghi generosi si spostano per lasciarmi i posti attigui al corridoio centrale, utili ad una eventuale fuga strategica. Alto, capelli bianchi, bella figura, il docente di “Lingua e Letteratura Italiana” ha un aspetto decisamente autorevole, ma la sua voce è pacata e gentile l’espressione del volto. Ascolto con interesse l’esposizione del programma, ma nell’aula gremita gli odori si mescolano al fruscio di piccoli movimenti, ai rumori della strada, ai passi e alle voci di altri ragazzi nel corridoio e quello che giunge al mio orecchio sinistro dotato di iperacusia è un frastuono doloroso che sovrasta la voce del docente. Sono come sordo e cieco in una fabbrica di profumi, esplodo in un urlo da far invidia a Tarzan  e il pensiero che sicuramente verrò allontanato non  migliora la situazione. Mentre mia madre cerca inutilmente di calmarmi, sull’improvvisa agghiacciante immobilità intorno a me, si levano le parole gentili e rassicuranti del docente, per nulla infastidito, all’apparenza, dall’interruzione: non sono obbligato ad uscire e, se mi necessita farlo, posso rientrare quando lo desidero. Com’è lontano il tempo in cui la sola presenza di uno come me “disonorava” il Liceo, il tempo dei processi alle intenzioni, il tempo del “Portalo fuori di qui!”. Esco per non disturbare oltre la lezione e una vocina dentro di me suggerisce che, in quelle successive, non ci saranno problemi. Il primo esame è come il primo amore: non si scorda mai. Non so se per tutti valga questo mio pensiero, io di certo non dimenticherò il mio primo esame da universitario e il docente che di me si è fidato e che, comprendendo il mio sguardo perplesso di fronte alla prova, disse: “Non tema trattamenti di favore. Queste sono domande del tutto simili a quelle che generalmente rivolgo ai suoi colleghi: loro rispondono verbalmente, lei risponderà scrivendo”. Il suo 30 in cima al mio libretto ha segnato definitivamente la fine del tempo “Il trucco c’è, ma non si vede” sulle mie performance. Nel corso degli anni, più volte ho incontrato il prof. Floriani lungo il breve tragitto verso l’Università e sempre si è fermato per salutarmi, per informarsi sul procedere dei miei studi, sempre con quel suo indimenticabile sorriso buono che resta il suo prezioso lascito. UN INCONTRO FORTUNATO L’inizio di un nuovo corso è sempre per me fonte di particolare ansia. Il cambiamento dell’aula richiede da parte mia lo sforzo maggiore: se voglio partecipare attivamente alle lezioni, devo adattare la mia percezione sensoriale alla nuova situazione. Rumori e odori sono il mio costante tormento. Mentre sono intento a dialogare con i miei neuroni, un collega chiede a mia madre se intende sostenere l’esame al primo appello. In altri tempi la sua domanda mi avrebbe ferito, o almeno profondamente irritato: invece trovo divertente l’equivoco e rido dell’espressione tra stupore e imbarazzo del malcapitato quando gli viene chiarito che lo studente sono io e non la mia accompagnatrice che, per quanto attempata, non necessita di alcun sostegno. Frequentare, ascoltare in tutta serenità argomenti che nutrono la mia mente e il mio spirito e mi allontanano gradualmente da una inevitabile innata ignoranza, mi riporta ad un me stesso ottimista ed autoironico che credevo smarrito. La voce del docente di “Storia della Critica e Storiografia Letteraria” mi giunge improvvisamente più chiara e tanto gradito l’invito a porre domande che accetterò ogni volta che potrò. Mentre i personaggi della Gerusalemme Liberata prendono vita nelle sue spiegazioni, nutrendo la mia fantasia, cresce la mia ammirazione per colui che – ho già deciso – sarà il mio relatore. Lo sarà davvero e avrò il suo sostegno anche per la tesi magistrale. Godere ancora adesso della sua stima e della sua amicizia mi rende, a dir poco, orgoglioso e mi fa sentire fortunato. EMPATIA Da sempre penso che l’ignoranza non si addica a chi come me desidera essere scrittore. Per questo, nonostante l’amara esperienza del liceo, ho scelto di continuare gli studi e mi sono iscritto alla Facoltà di Lettere. Nel 2012, l’affluenza particolarmente nutrita al corso di “Letteratura Italiana Contemporanea” rende inadeguate le aule di Palazzo Ricci: ci trasferiamo al Polo Fibonacci. Una passeggiata di venti minuti non farà male ad un sedentario come me. Mentre aspetto, insieme ad altri trecento studenti, che l’aula si liberi, un’esile figura in bicicletta colpisce il mio sguardo. Qualcuno sussurra: “È lei, è la prof!”. L’aula è grandissima, eppure stracolma: i ritardatari non hanno trovato posto e siedono sulle gradinate che costeggiano le lunghe file di banchi. Mi chiedo come quella figurina dallo sguardo dolce riuscirà a tenere a bada una platea così nutrita e in buona parte composta da matricole che, scontente di essersi iscritte al corso in alternativa a quello di latino, a loro parere troppo impegnativo, non smettono di chiacchierare. La voce che interrompe i miei pensieri tradisce una passione tanto grande che tutto il resto scompare. Per tutto il corso il cicaleccio delle ultime file non riesce a distrarmi e ogni altro rumore è spento da quella voce che racconta dei poeti del Novecento a me cari alcuni dei quali l’oratrice ha conosciuto e frequentato fin da bambina – e ci introduce ai segreti delle loro opere. La prof. Salibra chiede che un volenteroso riassuma di volta in volta l’argomento della lezione precedente. Io preparo le mie sintesi e, un giorno in cui nessuno si propone, il mio tutor legge quello che ho scritto. La Prof. sembra sorpresa, ma certamente meno di me quando, nella lezione successiva, è lei a chiedere che si leggano proprio le mie parole. La fiducia aiuta a crescere e lei me ne ha concessa tanta: sarà mio compito esclusivo, se non ritengo l’impegno eccessivamente gravoso, realizzare la sintesi di tutte le lezioni da pubblicare online, per poter essere consultata dai partecipanti al corso. Di fronte ad un compito non mi sono mai tirato indietro e non lo farò di certo questa volta. Ho il cuore che fa le capriole mentre accetto una sfida cui non voglio rinunciare, ma sicuramente ardua per me che scrivo con un solo dito. Non ho bisogno di riascoltare la registrazione per udire la voce che, a chiusura del corso, esaudendo un mio desiderio, recita “Vento a Tindari” per ringraziarmi del buon lavoro svolto. Poetessa affermata, la Prof. mi ha spronato a coltivare la mia passione per la scrittura poetica e ha reso più forte il mio amore per la parola, l’intesa tra noi nutrita di ammirazione e profondo rispetto reciproco. La foto che la ritrae alla mia laurea triennale è tra i tanti preziosi ricordi che ho di lei e, purtroppo, anche l’ultimo. Morte villana, di pietà nemica,/…./distrutta hai l’amorosa leggiadria (Dante, Vita Nuova VIII 8-11; Rime VII. vv.1 e 16) Mai versi mi sono sembrati più appropriati per aprire l’articolo che ho scritto per ricordarla durante la mia breve collaborazione con RadioEco, la radio dell’Università. L’ESAME DI LATINO Il famigerato esame di “Lingua e Letteratura Latina” mi offre l’opportunità di riprendere lo studio, a suo tempo interrotto n on per mia volontà, di una disciplina che apprezzo molto. Penso che la lettura dei classici in lingua originale non possa che giovare a chi intraprende gli studi umanistici; tuttavia comprendo il timore di tanti di fronte alla mole di lavoro che un esame diviso in più parti comporta per avere speranza di successo. Il docente, prof. Giuliano Ranucci, che, mi dicono essere piuttosto severo, ha un aspetto autorevole e un cognome dal suono molto familiare, che in un certo senso mi rassicura. Discuto con lui sulla traduzione personale di un vocabolo sotto lo sguardo benevolo delle due docenti che lo affiancano. Sono del tutto a mio agio quando, ad un tratto, la copertina del vocabolario di latino sulla scrivania accanto mi ricorda che sto dialogando con uno degli autori. Mi sento un microbo presuntuoso e il mio colorito fa improvvisamente concorrenza all’arcobaleno, ma il docente afferma di apprezzare le ragioni della mia scelta e il mio imbarazzo ha breve durata. Gli incontri successivi, a completamento dell’esame, ripagano la fatica che l’amore incondizionato per la lingua dei nostri avi ha preteso; è un guizzo di felicità il desiderio dell’intera équipe di presenziare alla seduta di laurea che si terrà di lì a qualche mese. Il 29 ottobre 2014, il brindisi per il mio 110 e Lode, costellato di volti amabili e amati in numero di gran lunga superiore a quello sognato, segna la prima tappa di una meta ancora lontana; peccato che la casa editrice non abbia rispettato i tempi di consegna e il volume La gioia ha i piedi scalzi  da me realizzato in fruttuosa collaborazione con Nicoletta Prandoni e Fabio Scarso, due preziosi amici, sia uscito solo a dicembre. La casa editrice sarà puntuale qualche anno dopo e il 21 novembre 2017, giorno della mia Laurea Magistrale, segnerà anche la data di pubblicazione del mio volume di poesie, Il presente oltre il passato ( G. De Nuccio, Il presente oltre il passato,  Edizioni ETS, Pisa, 2017.) : con gioia lo consegno ad amici e parenti, orgoglioso che la presentazione porti la firma della mia generosa docente di “Lingua e Letteratura Latina” e di “Didattica del Latino” Prof.ssa Annamaria Cotrozzi. Durante il percorso universitario, tenendo fede al proposito che fin dall’infanzia mi ero prefisso, non ho mai smesso di coltivare la mia passione per la poesia. In prima elementare, alla domanda “Cosa vuoi fare da grande?” – la più gettonata fra le tante usuali, ma, a dir poco, strane che vengono rivolte ai bambini – avevo risposto con convinzione – beata ingenuità: “Io voglio fare il poeta”. Oggi posso dire che, anche se, come afferma Shakespeare, “sognare appartiene alla natura umana”, non è sfogliando le margherite che sapremo cosa accadrà dei nostri sogni. Al contrario, penso che, handicap o non handicap, quelli possibili vadano abbondantemente concimati di impegno e innaffiati di buona volontà, senza mai perdere la speranza di realizzarli, mentre di tanto in tanto accarezziamo quelli che sembrano impossibili e potrebbero, invece, con un pizzico di fortuna, riservarci delle sorprese. Per questo ho studiato e, aspettando che il tempo mi dia altre risposte e sognando che magari nel 2220 su un rettangolino si legga “Qui ha soggiornato Giacomo De Nuccio, poeta, pisano d’adozione”, continuo a studiare e ad impegnarmi con tutto me stesso per diventare un buon artigiano di quella parola che da sempre affolla la mia mente e, dispettosa, tarda ancora a fiorire sulle mie labbra. IL GIORNO DELLA LAUREA A questo punto la storia si ferma, ma non è conclusa, c’è ancora tutto il futuro da sognare e realizzare, e il mio “The End” non può essere che un «ARRIVEDERCI», appuntamento alla prossima puntata.
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